Potremmo cominciare col ricordare che gli anni del miracolo della precedente età d'oro (approssimativamente, 1950-1973) dipendevano non solo sa una guerra mondiale e da un enorme incremento della spesa pubblica, ma anche da passaggio senza precedenti della popolazione dall'agricoltura all'industria. Le popolazioni agricole si sono rivelate una potente arma nella ricerca della "modernizzazione", dal momento che hanno fornito una fonte di lavoro a basso costo per una nuova ondata di industrializzazione. Nel 1950, il 23% della forza lavoro tedesca veniva impiegata in agricoltura, il 31% in Francia, il 44% in Italia ed il 49% in Giappone - nel 2000, tutti questi paesi avevano la loro popolazione agricola al di sotto del 5%.2
Nel XIX secolo ed all'inizio del XX, il capitale affrontava la disoccupazione di massa, quando ciò avveniva, espellendo di nuovo verso la terra i proletari urbani, oltre che esportarli nelle colonie. Con l'eliminazione dei contadini dal nucleo tradizionale, mentre si avvicinava al limite dell'espansione coloniale, il capitale eliminava il suo tradizionale meccanismo di recupero.
Nel frattempo, l'ondata di industrializzazione che aveva assorbito coloro che erano stati espulsi dall'agricoltura aveva raggiunto i propri limiti negli anni 1970. Da allora in poi, i principali paesi capitalisti avevano visto nei loro livelli di occupazione industriale un declino senza precedenti. Negli ultimi tre decenni, l'occupazione manifatturiera era calata del 50% rispetto all'occupazione totale di quei paesi. Anche i nuovi paesi "industrializzati" come la Corea del Sud e Taiwan avevano visto, negli ultimi vent'anni, il declino del loro livello relativo di occupazione industriale.3 Allo stesso tempo, il numero dei lavoratori a basso reddito dei servizi e quello degli abitanti delle baraccopoli che lavoravano nel settore informale era cresciuto in quanto erano queste le uniche opzioni rimanenti per coloro che erano diventati superflui rispetto alle necessità delle industrie in diminuzione.
Per Marx, la fondamentale tendenza alla crisi del modo capitalista di produzione non era limitata, nel suo campo di applicazione, a periodi rallentamenti nell'attività economica. Si mostrava prepotentemente come crisi permanente della vita lavorativa. Ciò che distingue specificamente le crisi "economiche" capitaliste - il fatto che la gente muoia di fame nonostante i buoni raccolti, e nonostante che i mezzi di produzione giacciano inutilizzati malgrado ci sia bisogno dei loro prodotti - è meramente un momento di questa crisi assai più grande - il costante riprodursi della scarsità di posti di lavoro nel bel mezzo di un'abbondanza di merci. È questa la dinamica di questa crisi - della crisi della riproduzione della relazione capitale-lavoro - che quest'articolo esplora.4
Malgrado la complessità dei suoi risultati, il capitale ha solo una precondizione essenziale: le persone non devono avere accesso diretto ai beni che ritengono necessari per poter vivere, facendo sì invece che l'accesso possa avvenire solo con la mediazione del mercato. Da qui il termine stesso di "proletariato", che originariamente designava i cittadini senza terra che vivevano nelle città romane. In mancanza di lavoro, essi venivano ammansiti in primo luogo per mezzo di una fornitura di pane e giochi circensi [panem et circences], e in definitiva occupandoli come mercenari. Tuttavia, la condizione proletaria era storicamente poco comune: nel corso della storia, la popolazione contadina globale aveva per lo più accesso diretto alla terra in quanto agricoltori o pastori autosufficienti, anche se erano quasi sempre costretti a dare una parte del loro prodotto alle élite dominanti. Da qui la necessità della "accumulazione primitiva": separare le persone dalla terra, dai loro mezzi basilari di riproduzione, e generare una completa dipendenza dallo scambio di merci.5 In Europa, questo processo è stato completato negli anni 1950 e 1960. Su scala globale, è solo ora - con l'eccezione dell'Africa sub-sahariana, di parte del Asia meridionale e parte della Cina - che cominciamo ad avvicinarci al completamento.
L'iniziale separazione delle persone dalla terra, una volta ottenuta, non è mai abbastanza. Dev'essere perpetuamente ripetuta affinché il capitale ed il lavoro "libero" continuino ad incontrarsi sul mercato, giorno dopo giorno. Da un lato, il capitale richiede, già presente sul mercato del lavoro, una massa di persone priva di accesso diretto ai mezzi di produzione, che cerca di scambiare lavoro con salario. Dall'altro lato, richiede, già presente sul mercato delle merci, una massa di persone che hanno già acquisito un salario, che cerca di scambiare il loro denaro con le merci. In mancanza di tali condizioni, il capitale viene limitato nella sua capacità di accumulazione: non può produrre e non può vendere su una scala di massa. Prima degli anni 1950, al di fuori degli Stati Uniti e del Regno Unito, la possibilità della produzione di massa veniva limitata proprio a causa del limita delle dimensioni del mercato, vale a dire, a causa dell'esistenza di una larga, ed in qualche modo autosufficiente, popolazione contadina che non viveva principalmente del salario. La storia del periodo post-bellico è quella dell'abolizione tendenziale di quel che rimaneva della popolazione contadina globale, in primo luogo perché autosufficiente, e in secondo luogo proprio perché contadini che possedevano la terra che lavoravano.
Marx spiega questa caratteristica strutturale del capitalismo nel suo capitolo sulla "riproduzione semplice", nel I volume de Il Capitale. Interpreteremo questo concetto come la riproduzione, dentro e attraverso i cicli di produzione-consumo, della relazione fra capitale e lavoratori.6 La riproduzione semplice viene mantenuta non grazie alla "abitudine", né a causa della falsa o inadeguata coscienza dei lavoratori, ma per mezzo di una costrizione materiale. Si tratta dello sfruttamento del lavoratore salariato, del fatto che tutti insieme possono acquistare solo una porzione delle merci che producono:
[Il capitale impedisce] che questi suoi strumenti autocoscienti della produzione scappino, spostando continuamente il loro prodotto dal loro polo al polo opposto, quello del capitale. Il consumo individuale da una parte provvede alla loro conservazione e riproduzione, dall’altra, distruggendo mezzi di sussistenza, provvede al loro costante riapparire sul mercato del lavoro.»7
L'accumulazione del capitale quindi non è questione dell'organizzazione della sfera della produzione o della sfera del consumo. L'eccesiva enfasi sulla produzione o sul col consumo tende a generare teorie parziali della crisi capitalista: "sovrapproduzione" o "sotto-consumo". Il lavoro salariato struttura il processo di riproduzione nel suo insieme: il salario assegna i lavoratori alla produzione e, simultaneamente, assegna il prodotto ai lavoratori. Questa è un'invarianza del capitale, indipendente da ogni specificità geografica o storica. L'esaurimento della riproduzione crea una crisi che è allo stesso tempo di sovrapproduzione e di sotto-consumo, dal momento che sotto il capitale è la medesima cosa.
Tuttavia, non possiamo passare così direttamente da una comprensione della struttura della riproduzione semplice ad una teoria della crisi. Poiché la riproduzione semplice è per sua stessa natura anche riproduzione allargata. Proprio come il lavoro deve ritornare al mercato del lavoro per rifornirlo riempendolo di salari, allo stesso modo il capitale deve tornare al mercato di capitali per reinvestire i suoi profitti in espansione o in produzione. Ogni capitale deve accumulare, o perderà la sua gara nella competizione con gli altri capitali. La formazione competitiva dei prezzi e la variabile dei costi delle strutture nei settori portano a divergenti tassi di profitto nei vari settori, profitti che a loro volta portano ad innovazioni che incrementano l'efficienza, poiché riducendo i loro costi al di sotto della media settoriale le imprese possono raccogliere super-profitti, oppure abbassare i prezzi in modo da conquistare quote di mercato. Ma la caduta dei costi porta in ogni caso alla caduta dei prezzi, perché la mobilità del capitale da un settore all'altro ha come conseguenza un'equalizzazione dei tassi di profitto inter-settoriale, in quanto il movimento del capitale, in cerca di profitti più alti, porta l'offerta (e quindi i prezzi) su e giù, causando il ritorno su nuovi investimenti a far oscillare la media inter-settoriale. Questo movimento perpetuo del capitale estende a tutti i settori le innovazioni che portano alla riduzione dei prezzi - stabilendo una legge di redditività che obbliga tutti i capitali a massimizzare i profitti, senza alcun riguardo per la configurazione politica e sociale nella quale si trovano. Di contro, quando la profittabilità crolla, non c'è niente che possa essere fatto per poter ristabilire l'accumulazione, se non la "macellazione del valore del capitale" e la "liberazione del lavoro", che ristabiliscono le condizioni di redditività.
Tuttavia, questa concezione formalistica del processo di valorizzazione non permette di cogliere la dinamica storica con cui è in sintonia l'analisi di Marx. La legge di redditività, da sola non può assicurare la riproduzione allargata, poiché essa richiede anche l'emergere di nuove industrie e di nuovi mercati. Crescite e cadute nella redditività agiscono come segnali rivolti alla classe capitalista per dirle che ci sono state delle innovazioni in delle industrie specifiche, ma quello che è importante è che nel tempo la composizione della produzione - e quindi dell'occupazione - cambia: industrie che una volta rappresentavano un'ampia porzione di produzione e di occupazione ora crescono più lentamente, mentre nuove industrie ora occupano una quota crescente di quelle due cose. Qui, bisogna guardare a che cosa è determinante della domanda, in maniera indipendente da quello che è determinante dell'offerta.8
La domanda varia con il variare del prezzo di un determinato prodotto. Quando il prezzo è alto, il prodotto viene acquistato solo dai ricchi. Con il processo di innovazione che fa risparmiare lavoro e con il suo accumularsi, i prezzi crollano, trasformando la merce in un prodotto con un consumo di massa. Al culmine di questa trasformazione, le innovazioni portano il mercato per un determinato prodotto ad espandersi enormemente. Tale espansione si estende oltre la capacità delle imprese esistenti, e i prezzi si abbassano più lentamente di quanto facciano i costi, portando ad un periodo di alta redditività. Il capitale allora si affretta a seguire questa linea, tirandosi dietro il lavoro. Ad un certo punto, tuttavia, vengono raggiunti i limiti del mercato; cioè, il mercato è saturo.9 Ora le innovazioni portano la capacità totale a crescere oltre la grandezza del mercato: i prezzi scendono più velocemente dei costi, portando ad un periodo di redditività in caduta. Il capitale abbandona la linea, espellendo il lavoro.10
Questo processo, che gli economisti hanno chiamato la "maturazione" delle industrie, si è verificato molte volte. La rivoluzione agricola, che scoppiò per la prima volta nella moderna Inghilterra, finì per colpire i limiti del mercato locale per i suoi prodotti. Le innovazioni del processo lavorativo, come il consolidamento delle terre frammentate, l'abolizione del terreno incolto, e la differenziazione dell'utilizzo del suolo secondo i vantaggi naturali, significano - nelle condizioni capitalistiche di riproduzione - che sia il lavoro che il capitale sono stati spinti sistematicamente fuori dalla campagna. Il risultato fu la rapida urbanizzazione dell'Inghilterra, e Londra divenne la più grande città europea.
È qui che entra in gioco la dinamica chiave della riproduzione allargata. Poiché i lavoratori agricoli espulsi non venivano lasciati indefinitamente a languire nella città. Col tempo, venivano occupati nei settori manifatturieri ed industriali britannici, e soprattutto nella crescente industria tessile, che stava passando dalla lana al cotone. Ma ancora una volta, le innovazioni del processo lavorativo, come la Giannetta, il Mulo di Filatura, il Telaio Meccanico significavano che col tempo anche quest'industria avrebbe cominciato ad espellere lavoro e capitale. E il declino delle industrie della prima Rivoluzione Industriale, in percentuale al lavoro totale impiegato ed al capitale accumulato, aprì la strada alle innovazioni della seconda rivoluzione industriale (chimica, telecomunicazioni, elettrica e motori a scoppio). È questo movimento di lavoro e di capitale dentro e fuori le linee di produzione, basato su tassi differenziali di profitto, a garantire la continua possibilità di una riproduzione allargata:
L'espansione... è impossibile senza materiale umano a disposizione, senza un incremento del numero dei lavoratori, che deve verificarsi indipendentemente dalla crescita assoluta della popolazione. Questo incremento è causato dal semplice processo che "rende libera" costantemente una parte della classe operaia; attraverso dei metodi che riducono il numero dei lavoratori impiegati proporzionalmente all'incremento della produzione. Pertanto, l'intera forma del movimento dell'industria modera dipende dalla continua trasformazione di una parte della popolazione lavoratrice in disoccupati o in semi-occupati.11
In questo modo, la riproduzione allargata è la riproduzione continua delle condizioni della riproduzione semplice. I capitali che non possono più reinvestire in una determinata linea a causa della minor redditività tenderanno a trovare, disponibili sul mercato del lavoro, dei lavoratori che sono stati espulsi da altre linee. Queste "libere" quantità di capitale e di lavoro troveranno occupazione nei mercati in espansione, dove i tassi di profitto sono più alti, o confluiranno in linee di produzioni del tutto nuove, fabbricando prodotti per dei mercati che non esistono ancora. Quindi, come processi di valorizzazione capitalista, vengono sussunte un numero crescente di attività, e delle merci si diffondono passando dal mercato di lusso al mercato di massa.
L'economista borghese Joseph Schumpeter ha descritto questo processo nella sua "teoria del ciclo economico"12. Egli ha osservato che la contrazione delle linee più vecchie raramente avviene in maniera fluida o pacifica, e che di solito la cosa si associa alla chiusura di fabbriche e a fallimenti, dal momento che i capitali cercano di dirottare le perdite verso un altro settore, in una concorrenziale guerra dei prezzi. Quando più linee si contraggono simultaneamente (e questo di solito avviene, poiché si basano tutte su settori collegati dalle innovazioni tecnologiche), si verifica una recessione. Schumpeter chiama tutta questa perdita di capitale e di lavoro col nome di "distruzione creativa" - "creativa", non solo nel senso che viene stimolata dall'innovazione, ma anche perché la distruzione crea le condizioni per nuovi investimenti e nuova innovazione: in una crisi, i capitali trovano sul mercato mezzi di produzione e forza lavoro a loro disposizione a prezzi scontati. Perciò, come una foresta in fiamme, la recessione ripulisce e libera la strada verso una nuova crescita.
Molti marxisti hanno sostenuto qualcosa di simile alla concezione della crescita ciclica di Schumpeter, alla quale hanno meramente aggiunto, come limite esterno, la resistenza dei lavoratori (o forse il limite dell'ecologia). Quindi, la nozione marxista di crisi come meccanismo di auto-regolazione viene integrata per mezzo della convinzione che le crisi forniscono l'opportunità di affermare il potere del lavoro (o correggere le tendenze ecologicamente distruttive del capitalismo). In questi momenti, « un altro mondo è possibile ». Eppure, la teoria del capitalismo di Marx non contiene una simile distinzione fra dinamiche "interne" e limiti "esterni". Per Marx è dentro, e attraverso, questo processo di riproduzione allargata che la dinamica del capitale manifesta essa stessa i suoi propri limiti, non attraverso cicli di espansione e di recessione ma per mezzo di un deterioramento secolare delle sue proprie condizioni di accumulazione.
Di solito le persone cercano una teoria del declino secolare nelle note di Marx a proposito della caduta tendenziale del saggio di profitto, note che Engels ha redatto e compilato come i capitoli che vanno dal 13° al 15° del Terzo volume del Capitale. Qui, la tendenza del tasso di profitto ad equipararsi fra le diverse linee di produzione - combinata con la tendenza della produttività a crescere in tutte le linee - è obbligata a sfociare, al livello globale dell'economia, in un declino tendenziale della redditività. Decenni di dibattito si sono concentrati sulla « crescente composizione organica del capitale », alla quale questa tendenza viene attribuita, così come sul complesso gioco di intrecci delle varie tendenze e contro-tendenze coinvolte. Tuttavia, coloro che si sono impegnati in questo dibattito hanno spesso trascurato che la medesima narrazione della composizione del capitale sottostà ad un'altra legge, che si esprime sia nelle tendenze cicliche che in quelle secolari della crisi, e che può essere letta come la riformulazione più importante di questa narrazione - il 23° capitolo del 1° Volume del Capitale: « La Legge generale dell'Accumulazione del Capitale »13
Questo capitolo che segue immediatamente dopo i tre capitoli che riguardano la riproduzione semplice e quella allargata, viene letto in genere come se avesse degli scopi più limitati. I lettori si focalizzano solo sulla prima parte delle argomentazioni di Marx, dove viene fornito un resoconto della formazione endogena del tasso salariale. Qui Marx mostra come, attraverso un mantenimento strutturale di un certo livello di disoccupazione, i salari vengono tenuti in linea con le necessità dell'accumulazione. L'« esercito industriale di riserva » dei disoccupati si contrae con il crescere della domanda di lavoro, facendo così, a sua volta, crescere i salari. Quindi, i salari crescenti si mangiano la redditività, rallentando l'accumulazione. Con la caduta della domanda di lavoro, l'esercito di riserva torna di nuovo a crescere, e i precedenti guadagni salariali evaporano. Se fosse questo l'unico argomento del Capitolo, allora la « legge generale » consisterebbe in niente di più che in una nota a piè di pagina sulle teorie della riproduzione semplice e della riproduzione allargata. Ma Marx ha solo appena cominciato a spiegare questo argomento. Se i disoccupati tendono ad essere riassorbiti nei circuiti del capitalismo come esercito di riserva industriale - ancora disoccupati, ma essenziali per la regolazione del mercato del lavoro - essi tendono in egual misura a superare tale funzione, riaffermandosi come assolutamente ridondanti:
Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l’energia del suo aumento, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva. La forza-lavoro disponibile è sviluppata dalle stesse cause che sviluppano la forza d’espansione del capitale. La grandezza proporzionale dell’esercito industriale di riserva cresce dunque insieme con le potenze della ricchezza. Ma quanto maggiore sarà questo esercito di riserva in rapporto all’esercito operaio attivo, tanto più in massa si consoliderà la sovrappopolazione la cui miseria è in proporzione inversa del tormento del suo lavoro. Quanto maggiori infine lo strato dei Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva tanto maggiore il pauperismo ufficiale. Questa è la legge assoluta, generale dell’accumulazione capitalistica. »14
In altre parole, la legge generale dell'accumulazione del capitale è quella per cui - in concomitanza con la sua crescita - il capitale produce nella massa dei lavoratori una popolazione relativamente ridondante, la quale tende a diventare una consolidata popolazione in eccesso, assolutamente ridondante rispetto alle esigenze del capitale.15
Non è immediatamente ovvio come Marx arrivi a questa conclusione, anche se la tendenza da lui descritta sembra essere sempre più evidente in un'era di crescita senza occupazione, di baraccopoli e di precarietà generalizzata. Marx chiarisce la sua argomentazione nell'edizione francese del 1° Volume. Qui egli osserva che più alta è la composizione organica del capitale, più rapidamente deve procedere l'accumulazione per poter continuare a mantenere l'occupazione, « ma questo stesso progresso più rapido diventa fonte di nuovi cambiamenti tecnici che a loro volta riducono la domanda relativa di lavoro ». Questa è assai più che solo una caratteristica di specifiche industrie fortemente concentrate. Con il procedere dell'accumulazione, una crescente "sovrabbondanza" di beni abbassa il tasso di profitto ed aumenta la concorrenza fra le linee di produzione, costringendo tutti i capitalisti ad « economizzare sul lavoro ». I guadagni di produttività vengono così « concentrati a causa di questa grande pressione; ed essi vengono incorporati in cambiamenti tecnici i quali rivoluzionano la composizione del capitale in tutti i rami che costituiscono la grande sfera della produzione ».16
Cosa avviene, delle nuove industrie; quando non arrivano ad assumere i disoccupati? Marx identifica nei - e attraverso i - movimenti del ciclo economico un momento in cui si passa dalle industrie ad alta densità lavorativa alle industrie ad alta densità di capitale, con una conseguente caduta della domanda di lavoro che riguarda sia le nuove linee di produzione che le vecchie: « Da un lato... il capitale addizionale che si è formato nel corso di ulteriori accumulazioni attrae sempre meno lavoratori in proporzione alla sua grandezza. Dall'altro lato, il vecchio capitale che si riproduce periodicamente in una nuova composizione respinge sempre più un numero crescente di lavoratori precedentemente da esso occupati. »17 È questo il segreto della "legge generale": le tecnologie per il risparmio del lavoro tendono a generalizzare, sia dentro che attraverso le linee di produzione, portando ad una declino relativo della domanda di lavoro. Inoltre, queste innovazioni sono irreversibili: non spariscono se, e quando, la redditività viene ripristinata (infatti, come vedremo più avanti, il ripristino della redditività viene spesso condizionato da ulteriori innovazioni relative a nuove - o in espansione - linee di produzione.) Perciò, lasciato senza controllo, questo declino relativo nella domanda di lavoro minaccia di superare la capacità di accumulazione del capitale, diventando assoluto.18
Marx non è arrivato a questa conclusione, semplicemente deducendola dalla sua analisi astratta della legge del valore. Nel 15° Capitolo del Capitale ha cercato di fornire una dimostrazione empirica di questa tendenza. A tal proposito riporta le statistiche provenienti dal censimento inglese del 1861 che mostra come le nuove industrie arrivano sulla linea di produzione in seguito ad innovazioni tecnologiche che, i termini di occupazione, erano « lungi dall'essere importanti ». Porta gli esempi della « fabbricazione del gas, della telegrafia, della fotografia, della navigazione a vapore, e delle ferrovie », tutti altamente meccanizzati e tutti processi relativamente automatizzati, e mostra che l'occupazione totale in queste linee di produzione ammonta a meno di 100.000 lavoratori, paragonata a quella superiore al milione del settore tessile e delle industrie metalliche, la cui forza lavoro si stava allora riducendo a causa dell'introduzione di macchinari.19 Solo da queste statistiche appare chiaro che le industrie della seconda rivoluzione industriale non avevano assorbito niente che poteva essere paragonato in alcun modo a quello assorbito dalla prima rivoluzione industriale al momento della sua iniziale apparizione. Nel 23° capitolo Marx fornisce altre prove statistiche del fatto che, dal 1851 al 1871, l'occupazione continuava a crescere sostanzialmente solo in quelle vecchie industrie nelle quali i macchinari non erano stati ancora introdotti con successo. Perciò, l'aspettativa da parte di Marx di una traiettoria secolare del declino, prima relativo, poi assoluto, della domanda di lavoro proveniva da quelle che erano le prove disponibili nella sua epoca.
Quello che qui Marx stava descrivendo non era una "crisi" nel senso solitamente indicato dalla teoria marxista, vale a dire una crisi periodica della produzione, del consumo o addirittura dell'accumulazione. Dentro e attraverso queste crisi cicliche, emerge una crisi secolare, una crisi della riproduzione della relazione stessa fra capitale e lavoro. Se la riproduzione allargata indica che i lavoratori ed il capitale che vengono espulsi dalle industrie in contrazione cercheranno di trovare un posto nelle linee di produzione nuove o in espansione, la legge generale dell'accumulazione del capitale suggerisce che, nel tempo, sempre più lavoratori e capitale scopriranno di non essere in grado di reinserirsi nel processo riproduttivo. In questo modo, il proletariato diventa tendenzialmente un'esternalità rispetto al processo della sua propria riproduzione, una classe di lavoratori che sono "liberi" non solo dai mezzi di produzione, ma anche dal lavoro stesso.
Per Marx questa crisi esprime la fondamentale contraddizione del modo capitalistico di produzione. Da un lato, nelle relazioni sociali capitalistiche, le persone vengono ridotte a lavoratori. Dall'altro lato, non possono essere lavoratori poiché, lavorando, minano le condizioni che rendono possibile la loro stessa esistenza. Il lavoro salariato è inseparabile dall'accumulazione del capitale, dall'incremento di innovazioni che economizzano il lavoro, le quali, col tempo, riducono la domanda di lavoro. « La popolazione lavorativa... produce sia l'accumulazione del capitale che i mezzi con i quali essa stessa viene resa relativamente superflua, e lo fa in una misura sempre crescente. »20 Potrebbe sembrare che l'abbondanza di merci, derivante dalle innovazioni che economizzano il lavoro, debba portare ad un'abbondanza di posti di lavoro. Ma in una società che si basa sul lavoro salariato, la riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario - che fa sì che le merci siano così abbondanti - può esprimere sé stessa solo come scarsità di posti di lavoro, attraverso una molteplicità di forme di occupazione precaria.
L'esposizione che fa Marx della legge generale è essa stessa una riscrittura, una spiegazione drammatica di quella che è la sua tesi elaborata all'inizio del Capitolo 23°. Qui, Marx scrive, in maniera in qualche modo semplice: « L'accumulazione del capitale è pertanto moltiplicazione del proletariato. » I marxisti di un primo periodo presero questa tesi intendendola come se l'espansione del capitale richiedesse un'espansione della classe operaia industriale. Ma il proletariato non coincide con la classe operaia industriale. Secondo quanto afferma Marx nella conclusione di questo capitolo, il proletariato è piuttosto una classe operaia in transizione, una classe operaia che tende a diventare una classe esclusa dal lavoro. Questa interpretazione è supportato da un'unica definizione di proletariato che viene data da Marx nel Capitale, e che si trova in una nota a piè di pagina della suddetta tesi:
Per "Proletariato" si deve intendere, economicamente parlando, nient'altro che il "lavoratore salariato", l'uomo che produce e valorizza "capitale", e che viene gettato in mezzo ad una strada non appena diventa superfluo per le necessità della valorizzazione. »21
Ai nostri tempi, la "legge generale dell'accumulazione capitalista", con le sue chiare implicazioni per l'interpretazione del Capitale, è stata trascurata perché, sotto il nome di "tesi dell'immiserimento", è stata ripresa e abbandonata molte volte nel corso del XX secolo. Si è ritenuto che la predizione di Marx relativa all'aumento della disoccupazione, e quindi del crescente immiserimento della popolazione lavorativa, fosse stato contraddetto dalla storia del capitalismo: dopo la morte di Marx, la classe operaia industriale è cresciuta di dimensioni ed ha visto anche aumentare il suo standard di vita. Tuttavia, a parte il fatto che queste tendenze sono state spesso sovra-generalizzate, più recentemente la loro apparente inversione ha fatto apparire più plausibile la tesi dell'immiserimento. Gli ultimi trent'anni hanno visto un stagnazione globale del numero relativo di lavoratori industriali. Il differenziale è stato recuperato per mezzo di un settore dei servizi di salari bassi nei paesi che hanno un forte PIL, parallelamente ad una esplosione senza precedenti di baraccopoli e di lavoratori informali nei paesi che hanno un PIL basso.22 Perciò, dopo tutto, la tesi dell'immiserimento è corretta? Ma questa è la domanda sbagliata. La domanda da fare è: in quali condizioni si applica?
Marx ha scritto sullo sviluppo di eccedenze consolidate di popolazioni nel 1867. Eppure la tendenza che egli descriveva - per mezzo della quale le industrie più nuove, grazie al loro grado di automazione, assorbivano proporzionalmente meno del capitale e del lavoro che veniva gettato via dalle industrie più vecchie - non si è svolta come egli aveva previsto. Come si può vedere dal grafico qui sotto riprodotto, il punto di vista di Marx era corretto, ai suoi, tempi, per il Regno Unito: le industrie in crescita dell'inizio della seconda rivoluzione industriale - come la chimica, le ferrovie, il telegrafo, ecc. - non erano in grado di compensare la diminuzione dell'occupazione delle industrie della prima rivoluzione industriale. Il risultato era un calo costante nel tasso di crescita dell'occupazione manifatturiera, che sembrava destinato a diventare un declino assoluto, ad un certo punto dell'inizio del XX secolo. Quel che Marx non aveva previsto, e che allora avvenne negli anni 1890, era stato l'emergere di nuove industrie che avevano assorbito allo stesso tempo lavoro e capitale, e che erano state in grado di fermare il declino per più di mezzo secolo. La crescita di queste nuove industrie, principalmente automobili e beni durevoli di consumo, dipendeva da due aspetti che si erano sviluppati nel XX secolo: il ruolo sempre più crescente dello Stato nella gestione economica, e la trasformazione dei servizi di consumo in beni di consumo.23
Graph 1: Employment in UK Manufacturing: 1841-1991
source: Brian Mitchell, International Historical Statistics: Europe, 1750-2005 (Palgrave Macmillan 2007)
Le industrie emergenti della quali scriveva Marx negli anni 1860 - gas, telegrafia e ferrovie, (alle quali aggiungeremmo solo elettrificazione) - avevano già cominciato a quel tempo ad essere disponibili per i consumatori. Eppure, i servizi di consumo generati da quelle tecnologie - inizialmente riservati al godimento dell'élite ricca - erano secondari rispetto ai servizi che venivano forniti internamente nell'ambito dell'economia pianificata delle imprese industriali. Le ferrovie erano emerse come un'innovazione che permetteva di risparmiare lavoro rispetto all'attività mineraria, e si erano di conseguenza estese alle altre industrie. Erano diventate un servizio offerto ai consumatori solo dopo che erano state sviluppate delle infrastrutture ferroviarie nazionali da parte di cartelli supportati dallo Stato. Anche se i costi erano diminuiti ed il trasporto meccanizzato su binario era diventato disponibile per sempre più persone, come servizio di consumo aveva mantenuto molte delle caratteristiche del suo iniziale utilizzo visto come un "processo innovativo" relativo all'industria. Le ferrovie nazionali, nella loro costruzione, che trasportava passeggeri in aggiunta alle merci, avevano assorbito una grande quantità di capitale e di lavoro, ma successivamente erano state relativamente automatizzato i processi che richiedevano così meno capitale e meno lavoro per il loro mantenimento.24
L'avvento dell'industria dell'automobile, supportata dal finanziamento statale delle strade, col tempo ha trasformato il servizio di consumo del trasporto meccanico in un bene che possa essere acquistato ai fini del consumo individuale. Questa segmentazione e replica del prodotto - la trasformazione del processo di innovazione per risparmiare lavoro in "prodotto innovativo" che assorbe capitale-e-lavoro - vuol dire che, nel momento in cui espandeva il mercato, l'industria era in grado di assorbire più capitale e lavoro. Una storia simile viene raccontata nel passaggio dal telegrafo ai telefoni, ed in quello dalla produzione elettronica per l'industria all'elettronica di consumo. In ciascun caso, un servizio consumato collettivamente - che spesso emerge da un servizio intermedio all'interno dell'industria - è stato trasformato in una serie di beni acquistabili individualmente, aprendo così dei nuovi mercati, che a loro volta diventano mercati di massa dal momento che i costi diminuiscono e la produzione aumenta. Questo ha fornito le basi per il "consumo di massa" del XX secolo, dal momento che queste nuove industrie sono state in grado di assorbire simultaneamente una grande quantità di capitale e di lavoro, anche nella misura in cui l'incremento della produttività aveva ridotto i costi relativi alla produzione, di modo che sempre più contadini diventavano operai, e sempre più operai venivano assegnati ad un'occupazione stabile.
Tuttavia, nella misura in cui tutto indica che é stato un debito pubblico senza precedenti a supportare questo processo, non esiste una tendenza inerente al capitale che possa permettere una continua generazione di prodotti innovativi che bilancino il processo di risparmio di lavoro conseguente alle innovazioni. Al contrario, le stesse innovazioni dei prodotti spesso servono da processo innovativo. in maniera tale che la soluzione peggiora soltanto il problema iniziale.25 Quando negli anni 1960 e 1970 le industrie dell'automobile e dei beni di consumo durevole cominciano ad espellere capitale e lavoro, le nuove linee di produzione come la microelettronica non sono state in grado di assorbire l'eccesso, anche decenni più tardi. Queste innovazioni, come quelle della seconda rivoluzione industriale sopra descritta, sono emerse da specifici processi di innovazione dei settori dell'industria e militare, e solo recentemente sono stati trasformati in una diversità di prodotti di consumo. La difficoltà relativa a questa dislocazione, dal punto di vista della prospettiva di generare nuova occupazione, non si riferisce meramente alla difficoltà di controllare un mercato del software - gli è che i nuovi prodotti generato dalle industrie microelettroniche hanno assorbito tendenzialmente una diminuita quantità di capitale e di lavoro. Infatti, i computer non solo hanno fatto diminuire rapidamente le richieste di lavoro stesse (l'industria dei microchip, a livello mondiale limitata solamente a poche fabbriche, è incredibilmente meccanizzata), ma tendono anche a ridurre la richiesta di lavoro in tutte le linee di produzione, facendo aumentare rapidamente il livello di automazione.26 Quindi, piuttosto che fa rivivere un settore industriale stagnante e ripristinare una riproduzione allargata - in linea con le previsioni di Schumpeter - l'ascesa dell'industria dei computer ha contribuito alla deindustrializzazione ed ha diminuito la scala di accumulazione - in linea con le previsioni di Marx.
La deindustrializzazione è cominciata negli Stati Uniti, dove il tasso di occupazione manifatturiera ha cominciato a diminuire negli anni 1960, prima che crollasse del tutto negli anni 1980, ma questa tendenza si è ben presto generalizzata nella maggior parte degli altri paesi con un alto PIL, ed anche in parsi ed in regioni che vengono considerate come "in via di industrializzazione".27 La crescita esplosiva di un settore di servizi a basso salario ha parzialmente compensato il declino dell'occupazione manifatturiera. Tuttavia, i servizi si sono rivelati incapaci di sostituire la manifattura come base di un nuovo ciclo di riproduzione allargata. Negli ultimi quarant'anni, negli Stati Uniti ed in Europa, il PIL medio su base ciclica è cresciuto sempre più lentamente, con la sola eccezione degli Stati Uniti della fine degli anni 1990, mentre i salari reali ristagnavano, ed i lavoratori dovevano affidarsi sempre più al credito per poter mantenere i loro standard di vita.
Se, come abbiamo affermato, la riproduzione allargata genera una crescita dinamica quando l'aumento della produttività libera capitale e lavoro da alcune linee di produzione, che poi ricombina in industrie nuove o in espansione, allora questa di conseguenza serve alla comprensione della crescita dell'industria dei servizi. I servizi sono, quasi per definizione, quelle attività per le quali è difficile raggiungere un incremento di produttività, se non a margine.28 L'unico modo conosciuto per aumentare drasticamente l'efficienza dei servizi è trasformarli in merci e poi produrre tali merci secondo dei processi industriali che nel tempo diventino sempre più efficienti. Molte merci fabbricate sono in realtà dei servizi precedenti - prima i piatti venivano lavati dai servitori nelle case dei ricchi; oggi, le lavastoviglie svolgono questo servizio in maniera più efficiente, ed esse stesse vengono prodotte con sempre meno lavoro. Quelle attività che rimangono servizi tendono ad essere proprio quelle per le quali è risultato impossibile trovare un sostituto nel mondo delle merci.29
Naturalmente il concetto borghese di "servizio" è notoriamente impreciso, e include ogni cosa dai cosiddetti "servizi finanziari" ai lavori ecclesiastici ed al personale addetto alla pulizia degli alberghi, e perfino alcuni lavori produttivi esternalizzati. Molti marxisti hanno provato ad assimilare la categoria dei servizi a quella del lavoro improduttivo, ma se riflettiamo sulla caratterizzazione di cui sopra diventa chiaro che essa si trova più vicina al concetto marxiano di "sussunzione formale". Marx ha criticato Smith per la sua comprensione metafisica del lavoro produttivo e del lavoro improduttivo - il primo produce merci ed il secondo no - e l'aveva sostituita per mezzo di una distinzione tecnica fra lavoro svolto come parte di un processo di valorizzazione del capitale ed il lavoro svolto al di fuori di questo processo, per il consumo immediato. Ne "Risultati del processo di produzione immediato", Marx sostiene che teoricamente tutto il lavoro improduttivo può essere reso produttivo, nella misura in cui viene formalmente sussunto dal processo capitalista di valorizzazione.30 Tuttavia, le attività formalmente sussunte producono solamente plusvalore assoluto. Per essere produttive di plusvalore relativo, è necessario trasformare il processo di produzione di modo che esso sia suscettibile di rapidi incrementi di produttività (cooperazione, lavorazione, industria e macchinari su larga scala) - vale a dire, la sussunzione reale. Quando economisti borghesi come Rowthorn parlano di "servizi tecnologicamente stagnanti", essi si richiamano senza saperlo al concetto marxiano di processo lavorativo che è stato sussunto solo formalmente, ma non realmente.
Così, nella misura in cui l'economia cresce, la produzione reale in "servizi" tende a crescere, ma lo fa solo aggiungendo più dipendenti o intensificando il lavoro dei dipendenti esistenti, cioè, per mezzo della produzione di plusvalore assoluto, piuttosto che attraverso la produzione di plusvalore relativo. Nella maggior parte di questi settori, i salari costituiscono quasi interamente il costo, di modo che tali salari devono essere mantenuti bassi per far sì che i servizi possano rimanere sostenibili e vantaggiosi, soprattutto quando le persone che li acquistano sono essi stessi poveri: perciò McDonald e Wal-Mart negli Stati Uniti - o il vasto proletariato informale in India ed in Cina.31
È un tipico fallimento dell'analisi, quello per cui oggi, in alcuni ambienti, la colpa della deindustrializzazione dei paesi con un alto PIL venga data all'industrializzazione dei paesi con un basso PIL, mentre in altri ambienti, la colla della deindustrializzazione dei paesi con un basso BIL viene data al FMI e alle politiche della Banca Mondiale che servono gli interessi dei paesi con un alto PIL. In realtà, quasi tutti i paesi del mondo hanno partecipato alla medesima trasformazione globale, ma secondo gradi differenti. Nei primi anni del dopoguerra, molti paesi si sono rivolti al "fordismo" - vale a dire, l'importazione dei metodi di produzione di massa, resa possibile grazie ai "trasferimenti tecnologici" dai paesi con un alto PIL grazie alle garanzie date dai governi. Il Fordismo viene spesso considerato come una politica di sviluppo economico nazionale, basata su un "accordo" fra capitale e lavoratori per dividersi i guadagni ottenuti grazie all'incremento produttivo. Ma il Fordismo si è affermato, quasi fin dall'inizio, a partire da un'internazionalizzazione del commercio dei prodotti. L'Europa ed il Giappone hanno beneficiato più dalla ripresa del commercio internazionale negli anni 1950 e 1960: i capitali in questi paesi sono stati in grado di realizzare massicce economie di scala producendo per il mercato internazionale, superando in tal modo i limiti dei loro propri mercati nazionali. Verso la metà degli anni 1960, i capitali nei paesi a basso PIL come il Brasile e la Corea del Sud sono stati in grado di fare lo stesso: sebbene potessero catturare solo una piccola porzione del mercato internazionale di esportazione in rapida espansione, sarebbero comunque cresciuti ben oltre di quanto fosse possibile nei loro mercati nazionali. Perciò, nel periodo precedente al 1973, l'internazionalizzazione del commercio si è associata con elevati tassi di crescita in tutti i paesi industrializzati.
Dopo il 1973, la situazione è cambiata. I mercati per i prodotti manufatti stavano diventando saturi, e si verificava sempre più il caso per cui pochi paesi avrebbero potuto rifornire di prodotti manufatti tutto il mondo (un marchio cinese attualmente fornisce a livello mondiale la metà dei forni a microonde). Pertanto, la crisi risultante della relazione fra capitale e lavoro, vale a dire, una crisi combinata di sovrapproduzione e di sottoconsumo, viene indicata da una caduta globale nel tasso di profitto e alla quale fa seguito una moltiplicazione delle forme di disoccupazione e di occupazione precaria. Nella misura in cui si spezzava il patto capitale-lavoro, essendo stato sempre basato sui sani tassi di crescita a livello mondiale, i salari ristagnavano. Il capitale in tutti i paesi diventava ancora più dipendente dal commercio internazionale, ma d'ora in poi, i capitali in alcuni paesi del mondo si sarebbero sviluppati solo a spese di quelli in altri paesi. Sebbene non avessero ancora raggiunto i paesi ad alto PIL, i paesi a basso PIL partecipano della stessa crisi internazionale. I Programmi di Aggiustamento Strutturale avevano solo accelerato la loro transizione verso un nuovo, instabile quadro internazionale. Durante gli anni 1980 e 1990, la deindustrializzazione, o quanto meno la stagnazione dell'occupazione industriale, si è verificata in maniera quasi universale in tutti i paesi in via di industrializzazione.32
Per quei paesi che rimanevano agricoli, o che si basavano su esportazioni o su risorse tradizionali, la crisi era ancora più devastante, in quanto i prezzi delle merci "tradizionali" era collassata a fronte della caduta della domanda. Qui, inoltre, dobbiamo guardare indietro anche riguardo alle tendenze a lungo termine. Nel primo periodo successivo al dopoguerra, lo sviluppo in agricoltura aveva incrementato radicalmente la disponibilità di alimenti a buon mercato. Innanzi tutto, dopo la seconda guerra mondiale, i fertilizzanti sintetici venivano prodotti nelle fabbriche di munizioni smobilitate, che consentivano di aumentare la produttività della terra facendo uso di una varietà di colture ad alto rendimento. In secondo luogo, la moto-meccanizzazione aveva fatto aumentare la produttività del lavoro agricolo. Entrambe le tecnologie erano state adattate alla produzione nei climi tropicali. Quindi, quasi immediatamente dopo che i contadini erano stati attirati globalmente dal mercato a causa degli alti prezzi agricoli derivanti dal boom della guerra di Corea, questi stessi prezzi cominciarono a diminuire continuamente. Uscire dall'agricoltura nel paesi a basso PIL era tuttavia un processo che era già stato avviato negli anni 1950. Era il risultato, non solo della differenziazione e dell'espulsione dei contadini a causa della vitalità del mercato, ma anche della massiccia spinta della popolazione stessa (invogliata dal cibo a buon mercato e dalla medicina moderna). La crescita delle dimensioni delle famiglie faceva sì che le forme tradizionali di eredità ora polverizzassero la proprietà della terra, mentre la crescita della densità della popolazione forzava i limiti ecologici, poiché le risorse erano state usate in maniera insostenibile.33 Ancora una volta, i Programmi di Aggiustamento Strutturale degli anni 1980 e 1960, che costringevano i paesi indebitati ad abolire i sussidi agricoli, dando così il colpo di grazia a quei contadini che erano già senza fiato.
Deve quindi essere chiaro che la deindustrializzazione non è causata dalla industrializzazione del "terzo mondo". La più parte della classe operaia industriale del mondo ora vive fuori dal "primo mondo", ma è così anche per la maggior parte della popolazione mondiale. I paesi a basso PIL hanno, in assoluto, più lavoratori nell'industria, ma non rispetto alla loro popolazione. L'occupazione industriale relativa sta diminuendo nonostante il collasso dell'occupazione agricola. Così come la deindustrializzazione nei paesi ad alto PIL comporta sia l'uscita dalla manifattura che il fallimento dei servizi che ne prendono il posto, anche la crescita esplosiva delle baraccopoli nei paesi a basso PIL comporta sia l'uscita dalla campagna che il fallimento dell'industria che assorbe il surplus rurale. Mentre la Banca Mondiale era solita suggerire che le crescenti popolazioni in eccedenza in tutto il mondo rappresentavano un mero elemento di transizione, ora sono costretti ad ammettere il persistere di queste condizioni. Più di un miliardo di persone oggi conducono una terribile esistenza che si concretizza in una migrazione infinita fra le baraccopoli urbane e quelle rurali, in cerca di un lavoro temporaneo e casuale ovunque lo trovano.34
Abbiamo descritto il modo in cui l'accumulazione di capitale, per lunghi periodi, porti le vecchie linee produttive ad espellere lavoro e capitale, che poi vengono ricombinati in linee produttive nuove ed in espansione. Questa è la dinamica del capitale, che diventa allo stesso tempo il suo limite. Dal momento in cui il capitale viene espulso a prescindere dal fatto che possa o non possa trovare strade produttive di investimento, viene raggiunto un punto in cui il capitale "eccedente" inizia a crescere nel sistema, e oltre il quale il lavoro eccedente non viene più usato. Marx discute questo fenomeno in una sezione del volume III del Capitale, "Eccesso di capitale e sovrappopolazione".35 Per la maggior parte di questo articolo ci siamo concentrati sul secondo fenomeno, dovuto in larga parte alla negazione di questa tendenza fra i lettori di Marx. In questa sezione finale esaminiamo alcune recenti manifestazioni del primo, poiché la storia del capitale eccedente media e distorce la storia dell'eccedenza di popolazione. Purtroppo saremo in grado di fare qui ben poco a questo riguardo, lasciando un trattamento più esteso al prossimo n°3 di Endnotes.
Gli Stati Uniti sono usciti indenni dalla Seconda Guerra Mondiale, come il paese capitalista più avanzato, con il più grande mercato nazionale, la più piccola popolazione agricola (come percentuale di occupazione), e con le più avanzate tecnologie industriali. Secondo alcune stime, è stato responsabile per più della metà della produzione mondiale.36 Inoltre è uscito dalla guerra come il creditore globale per eccellenza, possedendo due terzi delle riserve auree mondiali e con i loro alleati più potenti che gli erano debitori di immense somme di denaro. In tali circostanze, gli Stati Uniti sono stati in grado di ricostruire l'ordine monetario internazionale secondo le loro condizioni, che era nel caos dai tempi della Grande Depressione. A Bretton Woods, il dollaro venne istituito come valuta internazionale di riserva, l'unica ad essere direttamente sostenuta dall'oro, mentre tutte le altre sono ancorate al dollaro (creando così un sistema di tasso di scambio fisso, che permetteva tuttavia aggiustamenti periodici). Da una parte, fissando la loro valuta in relazione al dollaro, alle potenze europee veniva concesso un sollievo temporaneo per quel che riguardava l'aggiustamento dei loro bilanci durante la ricostruzione. Dall'altro lato, gli Stati Uniti, agevolando la ricostruzione, venivano rassicurati per quanto riguardava la loro esportazione sul mercato, cosa che a sua volta facilitava l'acquisto di merci americane da parte europea. In questo modo, i deficit di bilancio europei venivano finanziati con le esportazioni del capitale americano, e così negli accordi di Bretton Woods quello che veniva effettivamente scritto era uno squilibrio persistente fra le due sponde dell'Atlantico. Ad ogni modo, si trattava di uno squilibrio che sarebbe evaporato ben presto.
Alle spalle di questo afflusso di dollari - attraverso investimenti diretti all'estero (assai spesso, militari), e attraverso prestiti e credito, i paesi europei, così come le imprese americane che operavano in Europa - si stava importando capitale degli Stati Uniti al fine di aumentare la capacità produttiva europea. Il medesimo processo era in corso in Giappone, con la guerra di Corea che giocava lo stesso ruolo giocato dal Piano Marshall (anche se in Giappone, le filiali americane si facevano notare per la loro assenza). Tutto questo veniva incoraggiato dagli Stati Uniti, che facilitavano il trasferimento in tutto il mondo delle loro tecnologie di produzione di massa. Tuttavia, già negli anni 1960, molti paesi avevano sviluppato la loro capacità produttiva fino a non basarsi più sull'import americano. Inoltre, alcuni di questi paesi stavano cominciando a competere con gli stessi produttori statunitensi ai quali precedentemente si erano affidati. Questa concorrenza si era svolta dapprima sui mercati terzi, e poi sullo stesso mercato nazionale statunitense. La conseguente inversione della bilancia commerciale degli Stati Uniti a metà degli anni sessanta, significava che la crescita della capacità produttiva globale stava per raggiungere un limite. D'ora in avanti, la concorrenza per l'export sarebbe diventato un gioco a somma zero.
Mentre durante il dopoguerra, il boom di esportazione di dollari, direttamente attraverso gli investimenti all'estero, aveva permesso una rapida crescita nei paesi in deficit, questo cambiamento di fase voleva dire che le esportazioni di capitale americano diventavano sempre più inflazionistiche.37 La vertiginosa ascesa del deficit del bilancio americano relativamente alla guerra del Vietnam, aveva solo intensificato questo problema dell'inflazione, dal momento che l'apparentemente inevitabile svalutazione del dollaro minacciava di minare le riserve, e quindi la bilancia dei pagamenti, di tutte le nazioni, spingendo fino ai suoi limiti il sistema di tasso di scambio fisso. Il risultato è stato che da un lato molte banche centrali avevano cominciato a convertire in oro i loro dollari (forzando gli Stati Uniti a porre effettivamente fine alla convertibilità nel 1968), mentre dall'altro lato l'eccedenza di dollari accumulata sul mercato dell'Eurodollaro, cominciava ad esercitare una pressione speculativa sulle valute delle economie basate sull'export e che erano più a rischio a causa degli effetti della svalutazione del dollaro. Queste includevano sia le economie dei paesi in via di sviluppo, che avevano ancorato le loro valute al dollaro, e che quindi rischiavano di vedere crollare il valore relativo delle loro principali merci da esportazione rispetto ai prodotti importati da cui dipende il loro sviluppo, sia le nazioni sviluppate i cui mercati di esportazione rischiavano di essere compromessi dalla rivalutazione delle loro valute relativamente al dollaro. Nel suo successivo abbandono di Bretton Woods e nella sua politica di "cordiale indifferenza" del deficit, gli Stati Uniti avevano usato questa minaccia della svalutazione del dollaro per imporre al resto del mondo una nuova valuta di riserva sotto forma di un dollaro variabile, delegando effettivamente il lavoro di stabilizzare il dollaro alle banche centrali straniere, che sarebbero costrette a spendere i loro dollari in obbligazioni americane per mantenere il valore in dollari delle loro valute. In questo modo, sono stati in pratica soppressi i vincoli di bilancio degli Stati Uniti, permettendo così di lasciar correre i disavanzi e di emettere dollari a volontà, sapendo che le nazioni straniere non avrebbero scelta se non quella di riciclarli sui mercati finanziari degli Stati Uniti, in particolare in quello del debito pubblico che ha rapidamente sostituito l'oro come valuta globale di riserva.38
I dollari in eccesso riciclati hanno dato una spinta enorme ai mercati finanziari globali, che sono diventati il fattore chiave relativamente all'alta volatilità del mercato valutario - sia come fonte di questa volatilità che come unica risorsa disponibile per proteggersene. Tuttavia, i dollari in eccedenza hanno anche trasformato il paesaggio e hanno modellato la crescita dell'economia globale per i prossimi 30 anni. Dal momento che era molto in eccesso rispetto alla domanda globale di investimenti, questa "gigantesca montagna di denaro" è diventata la fonte di un sempre più grande debito pubblico e di consumo, così come delle bolle finanziarie speculative. In quest'ultimo senso, i dollari in eccesso sono diventati una sorta di fantasma che infesta il mondo, provocando delle bolle senza precedenti in tutte le economie nazionali che avevano la disgrazia di attirare la loro attenzione.39
Questa catena di bolle e di fallimenti è cominciata in America Latina alla fine degli anni 1970. Un afflusso di petro-dollari riciclati (stimolati da dei tassi di interesse reali sul dollaro, inferiori allo zero) ha generato tutta una serie di innovazioni finanziarie rischiose (ivi incluso il famigerato "tasso di interesse variabile"), che sono tutte collassate quando lo "shock di Volcker" ha fatto salire i tassi di interesse. Dal Giappone sono stati riciclati i dollari in eccesso che hanno salvato l'economia degli Stati Uniti dalla successiva deflazione ed hanno permesso i programmi di spesa, ancora più keynesiani, di Reagan. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno ringraziato il Giappone per la sua gentilezza, svalutando il dollaro rispetto allo yen durante gli Accordi di Plaza del 1985, spedendo l'economia giapponese in una bolla del prezzo degli asset di proporzioni ancora più grandi, che alla fine ha collassato nel 1991. Questa, a sua volta, ha scatenato una serie di bolle nelle economie del Sud Est asiatico, verso cui il Giappone aveva esportato la sua capacità produttiva (al fine di arrivare ad avere uno yen forte). Queste economie, così come altre economie latinoamericane che avevano ancorato le loro valute al dollaro, implodevano come risultato ritardato della rivalutazione del dollaro nel rovescio degli Accordi di Plaza del 1995. Tuttavia, questo faceva sì che semplicemente la bolla ritornasse indietro negli Stati Uniti, poiché il mercato borsistico favorevole creato dall'apprezzamento del dollaro aveva ceduto alla bolla dei dot-com [delle nuove tecnologie]. Nel 2001, quest'ultima si era trasformata in una bolla immobiliare, allorché la domanda americana degli organismi di credito si rivela essere uno sfogo insufficiente per l'eccedenza mondiale di dollari. Se le ultime due bolle sono rimaste in gran parte confinate negli Stati Uniti (benché la bolla degli alloggi si è estesa anche all'Europa), ciò è avvenuto perché, a causa delle dimensioni e dei privilegi dovuti all'età, l'economia americana è attualmente la sola ad essere in grado di sopportare l'afflusso di quest'eccedenza di dollari per un certo periodo di tempo.
Se collochiamo questo fenomeno nel contesto della storia della deindustrializzazione e della stagnazione descritta sopra, diventa plausibile considerarla un gioco delle sedie nel quale si diffonde per tutto il mondo la capacità produttiva, associata ad una crescente produttività, che aggrava continuamente la sovraccapacità globale. La capacità in eccesso viene perciò mantenuta in movimento solamente per mezzo di un processo continuo che sposta il fardello di quest'eccesso da un'economia rigonfia di bolle ad un'altra. Quest'ultime sono in grado di assorbire l'eccedenza solo facendo crescere il debito sulla base di tassi di interesse a breve termine estremamente bassi e della ricchezza fittizia che questo genera, e a partire dal fatto che non appena i tassi di interesse cominciano a crescere e la febbre speculativa aumenta, tutte le bolle devono inevitabilmente scoppiare - una dopo l'altra.
Molti hanno chiamato questo fenomeno "finanziarizzazione", un termine ambiguo che suggerisce il sempre più crescente dominio del capitale finanziario sul capitale industriale o commerciale. Ma le storie di "crescita della finanza", in tutte le loro forme, nascondono sia le origini del capitale finanziario che le ragioni per cui esso continui a crescere mentre anche un settore come la finanza trovi difficoltà sempre più crescenti per riuscire a mantenere il suo tasso di rendimento. Per quanto riguarda il primo aspetto, dobbiamo guardare non solo alla massa di eccedenza di dollari, che abbiamo prima descritto, ma anche alla stagnazione globale nei settori non finanziari che ha spostato poco a poco la domanda di investimenti verso la quotazione in borsa, le fusioni-acquisizioni, che hanno generato commissioni e dividendi per le compagnie finanziarie. Quanto al secondo aspetto, la scarsità di opportunità di investimenti produttivi, combinata con una politica monetaria espansiva, hanno mantenuto i tassi di interesse a breve e lungo termine a dei livelli anormalmente bassi, che hanno costretto la finanza ad assumersi rischi sempre più grandi per poter ottenere gli stessi rendimenti sugli investimenti. Questo crescente livello di rischio (che misura finanziariamente la caduta della redditività) viene a sua volta nascosto da delle "innovazioni" finanziarie sempre più complesse, che richiedono periodicamente dei salvataggi da parte dei governi statali quando falliscono.
Debolezza della crescita che non ha precedenti nei paesi con un alto PIL, nel periodo del 1997-2009, crescita zero dei redditi familiari e dell'occupazione in tutto il ciclo, dipendenza quasi completa per quanto riguarda le costruzioni ed il debito delle famiglie per poter mantenere il PIL - tutto questo testimonia l'incapacità da parte del capitale in eccedenza nella sua forma finanziaria di ricombinarsi con il lavoro in eccedenza e dare origine a modelli dinamici di riproduzione allargata.40 Le bolle dell'Europa dell'Ottocento hanno generato i sistemi ferroviari nazionali. Anche la bolla giapponese degli anni 1980 si è lasciata dietro una nuova capacità produttiva che non è mai stata pienamente utilizzata. Al contrario, le due bolle centrate sugli Stati Uniti degli ultimi decenni hanno generato solo una saturazione di cavi per la telecomunicazione in un mondo sempre più wireless e vaste distese di case insostenibili economicamente ed ecologicamente. La "opzione Greenspan" - stimolare "un boom all'interno della bolla" - è stata un fallimento. Ha solo dimostrato che iniettare ancora più debito in un sistema già sovra indebitato porta ad un rendimento diminuito.
Un'obiezione comune alla narrazione che abbiamo finora fornito sarebbe quella che sottolinea come la Cina si presenti come una chiara eccezione a questo panorama di stagnazione generale, soprattutto nella misura in cui si riferisce quest'eccezione a delle tendenze, altrimenti globali, di deindustrializzazione e di sottoccupazione. Naturalmente, in questi anni la Cina è diventata una potenza industriale globale, ma lo ha fatto non per mezzo dell'apertura di nuovi mercati o dell'innovazione di nuove tecniche produttive, ma piuttosto per mezzo dello sviluppo massiccio della sua capacità produttiva a spese di altri paesi.41 Tutti pensano che quest'espansione deve aver comportato uno sviluppo storico delle dimensioni della classe operaia industriale cinese, ma ciò è del tutto falso. Le ultime statistiche mostrano che, alla fine, fra 1993 ed il 2006, la Cina non ha creato nessun nuovo posto di lavoro nel settore manifatturiero, con il numero totale di tali lavoratori che si aggirano intorno ai 110 milioni di persone.42 E ciò non sorprende quanto potrebbe sembrare a prima vista, per due ragioni.
Innanzitutto, negli ultimi trent'anni, l'industrializzazione delle nuove industrie del Sud - inizialmente basate sul processo di export da Hong Kong e Taiwan - ha tenuto il passo con la demolizione del vecchio nord-est industriale maoista. Questo può fornire parte della spiegazione del perché la Cina, diversamente dalla Germania, dal Giappone, o dalla Corea (all'inizio del periodo successivo alla seconda guerra mondiale), non abbia visto nessun aumento nei salari reali nel corso di decenni di crescita avvenuta ad un tasso miracoloso.
In secondo luogo, la Cina non è cresciuta solo sulla base della produzione manifatturiera ad alta intensità lavorativa. I suoi bassi salari l'hanno aiutata a competere in tutto uno spettro di industrie, dal tessile ai giocattoli, alle automobili ed ai computer. L'incorporazione delle innovazioni esistenti volte a risparmiare lavoro nelle aziende dei paesi in via di sviluppo, inclusa la Cina, ha significato che, anche con una crescente espansione geografica, ogni gruppo di paesi industrializzati ha raggiunto livelli di occupazione industriale più bassi (relativamente alla forza lavoro totale). Vale a dire, non solo la Cina ha perduto posti di lavoro nella manifattura nelle sue industrie più vecchie; le nuove industrie tendenzialmente hanno assorbito meno lavoro relativo alla crescita della produzione.
Nel diciannovesimo secolo, quando l'Inghilterra era il laboratorio del mondo, il 95% del mondo era composto di contadini. Al giorno d'oggi, quando la vasta maggioranza della popolazione mondiale dipende dai mercati globali per poter sopravvivere, la capacità che ha un paese di produrre per gli altri porta alla rovina, sia per coloro che devono essere tenuti nella povertà di modo da poter mantenere bassi i prezzi per l'esportazione e per l'immensa moltitudine il cui lavoro non è più necessario, ma che, ugualmente, non possono più contare sulle proprie risorse per sopravvivere. In questo contesto, quel che rimane della popolazione contadina mondiale non può più servire da esercito per la modernizzazione, vale a dire come una riserva di lavoro e di domanda di consumo su cui appoggiarsi per accelerare il ritmo dell'industrializzazione. Diventano una semplice eccedenza. Ciò è vero in India e nell'Africa sub-sahariana - e lo è anche in Cina.
Oggi molti parlano di un "recupero dei senza lavoro", ma se si applica la "legge generale dell'accumulazione del capitale" allora tutti i recuperi capitalisti sono tendenzialmente senza il lavoro. La tendenza da parte delle industrie "mature" ad espellere lavoro, mentre facilitano la riproduzione allargata, tende anche a consolidare un'eccedenza di popolazione non pienamente assorbita dalla successiva espansione. Ciò è dovuto all'adattabilità attraverso le diverse linee di produzione della tecnologia per risparmiare lavoro, cosa che significa che la fabbricazione di nuovi prodotti tende ad utilizzare i più innovativi processi di produzione. Tuttavia il processo di innovazione dura per sempre, e si generalizza attraverso nuovi e vecchi capitali, mentre le innovazioni del prodotto sono intrinsecamente limitati nella loro capacità di generare un'estensione netta della produzione e dell'occupazione. Qui il problema non è solo che le innovazioni legate al prodotto devono emergere ad un tasso accelerato per assorbire l'eccedenza espulsa dai processi di innovazione, ma gli è che un'accelerazione dell'innovazione legate al prodotto stesso genera a sua volta un'accelerazione del processo di innovazione.43
Tuttavia se la "legge generale" fosse stata sospesa per gran parte del XX secolo per le ragioni che abbiamo descritto sopra, le attuali crescenti masse globali sottoccupate non possono essere attribuite alla riaffermazione di questa "legge generale", quanto meno non in senso semplice. Poiché la traiettoria del capitale eccedente distorce la traiettoria del lavoro eccedente descritta da Marx, e non solo nei modi che abbiamo già descritto. Cosa ancora più importante, il capitale eccedente che si è costituito sul mercato internazionale monetario nel corso degli ultimi 30 anni, ha nascosto alcune delle tendenze all'immiserimento assoluto, per mezzo della crescita del debito delle famiglie della classe operaia. Questa tendenza, che ha impedito la caduta della domanda a livello globale, ha allo stesso tempo impedito qualsiasi possibilità di recupero, che avrebbe potuto essere ottenuto solo per mezzo della "macellazione dei valori del capitale" e "liberando il lavoro". Poiché, mentre la svalutazione degli asset potrebbe comportare la possibilità di un nuovo boom di investimenti, la svalorizzazione della forza lavoro porterebbe solo, in questo contesto, a livelli più elevati di default dei pagamenti dei consumatori e a dei crolli finanziari più gravi.44 Non si tratta quindi solo della sua capacità di generare occupazione, ma della sostenibilità della ripresa stessa, che oggi rimane incerta.
I prossimi decenni potrebbero vedere una serie di esplosioni, se gli Stati non riescono a gestire le pressione globali deflazionistiche, o si potrebbe assistere ad un lungo e lento declino. Benché non siamo inclini al catastrofismo, vogliamo avvertire coloro che potrebbero aver dimenticato che a volte la storia ha degli scatti in avanti in maniera imprevedibile. Ad ogni modo, la catastrofe che ci aspettiamo non è qualcosa che appartiene al futuro, ma è semplicemente la prosecuzione del presente che segue la sua esecrabile tendenza. Abbiamo già visto decenni di povertà crescente e di disoccupazione. Coloro che dicono a proposito dei paesi ancora-industrializzati che non sono poi così male, che le persone risponderanno bene - in una frase, che il proletariato è diventato indifferente alla propria miseria - vedranno la loro ipotesi testata negli anni a venire, nella misura in cui decresce il livello del debito e continua il trend verso il basso del reddito delle famiglie. In ogni caso, per un'immensa parte della popolazione mondiale, è diventato impossibile negare l'abbondanza delle prove della catastrofe. Tutte le domande legate all'assorbimento di questa umanità in eccesso sono state messe a dormire. Essa esiste soltanto per essere gestita: segregata nelle prigioni, emarginata nei ghetti e nei campi, disciplinata dalla polizia, e annientata dalla guerra.
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